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Ricordi le spalle dʼoro sulle quali salivo
ad arraffare lʼetà buona del fiore
messo fra i vetri a sedere sul muro
dellʼorto che da casa tua sta a tre minuti?
Ricordi quando a spolverarle stavi ore
dalle perdite aggrumate dellʼoleandro
messo fra gli aranci a colorare
lʼorto che da casa tua sta a tre minuti?
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Nel sette dʼAgosto, tra accesi tassi mansueti, mi si rivelano, lucide e splendenti, le vetrate della Palmhus.
Chiedendo nulla al Mondo, se non il suo tumulto, mʼingozzo a chilogrammi di luce dʼoro e tʼassaggio: del giallo e del verde delle barbe scese dallʼarco della serra sai, e di cose, anche, che non portano diciture; di spiazzo sai e dʼocchi scintillanti fino al mento: uva, pettinature.
E non cʼè palmeto, a quanto vedo, che possa tenerti dal grattarti con un bastone levigato. Come la zolla sollevata dʼun prato.
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Nel dodici dʼAgosto, fra i bui balsami dʼun viale turchino, nel peggioramento delle mie euforie, affaticato dalle ellissi sgrovigliate delle sofore, allucinato dai fiori luminescenti delle ninfee, lusingato dai gialli spenti dei becchi dei paperi, mi lego, adottandomi, alla visione del veduto.
Prenditi cura del mio sguardo, ti riguarda.
E quando ti guardo usami riguardo: questo sa dirsi lo sguardo: non sa guardare ma guardarsi.
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Nel diciannove d’Agosto, semafori appesi alle finestre, mattinata d’acqua per le strade, rumori di bus e grida, dopo un mal sognato di grugni affacciati, sento venire adesso, fra pensieri su religione e sospetti, al di là del domandare ragione ai sentimenti, insinuante, il desiderio di teppismo.
La città dell’uomo è pressappoco l’uomo stesso: se io la spacco, spacco anche me stesso.
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La specchiera in faccia alla quale
ti lavi i denti è il tuo tempio.
La luce con cui accendi il bagno
è pagana, matrigna, magica:
filtra dalla fessura come una lama argentata
ed entra nell’occhio del corridoio
accecandolo, arieggiandolo.
Io so che quel che ho salutato
è il meglio di quel che potevi deciderti
ed afferro lo spago di luce, la lama
e a piedi, scostandone la cortina umida
entro nel bagno: sul tuo viso vince
il servilismo egiziano, l’odore
dolciastro dell’abbandono: la lacrima.
Ti lavi i denti e le labbra subiscono
si gonfiano, iniziano un maremoto
e quasi annegano nel gomitolo
di schiuma di menta. Sono un gioiellino:
rosse, bianche… e le maioliche saltano
dalla finestra e cadono in giardino.
Sciacqui e sputi ed il lavandino
si profuma del tuo ultimo bocchino.
Sei devastante: piangi ed io ritiro
il mio addio: ti resto a fianco, vicino.
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Sbalzato dal basso di questa sera
nutrito dal piacere delle tue fiche
impietritomi davanti a quest’oro opaco
mi riparto in buone e meno parole:
e per farmi contento ti guardo.
E dagli occhi e dal respiro vedo
che stai per parlare: il labbro
sfiora l’altro: invisibile
la collana di queste tue lettere
nel mondo si va versando.
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Il tessuto verbale
messo agli argini
dei tuoi respiri
è cosa delicata
un russare del pensiero
fra le pieghe dei miei qualcosa.
E’ tessuto, non grezzo ma tinto:
un rosso non di papavero
ma che viene dritto
dal sopruso, dall’assassinio.
E’ un graffio nel quadro
impreciso della notte.
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La bugia
ora lo so
innaffia di luce
gli stati della notte:
è l’abbaio della voce
del verbo fottere
ma la terza persona
che al singolare fotte.
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Della camera noi siamo
la buia, azzurra luce
dove tutto poggia, in quiete
e ha due dimensioni:
colore e stelle d’oro.
In camera tutto c’è assente:
il passo non scalda il pavimento
la mano non accende il lume:
tutto ha luogo soltanto
se nasce dal letto.
Il letto non è camera
ma un arco di vetro dove
la luce passa i vuoti
miseri ed opachi
dove nessun colore si forma.
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Il tuo nome
è un bussare brusco
alle porte d’entrata
dei miei io ho:
tutti.
Bisbigliato dai capillari
gridato dalle vene
porta i grumi
delle lettere
nel sangue
come frutti.
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Scritto a København, Paris
Roma, Fondi, Sabaudia
Castelnuovo, Isernia.
Fra il 2006 e il 2011.
Alla febbre e al suo oro.
A Romina Mearelli.
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